Da tempo sostengo che il mercato italiano del caffè stia vivendo un periodo di rinascimento, quella che io chiamo coffee renaissance che come il movimento artistico-letterario di fine `300 da cui ho preso in prestito il nome, ha come punti cardine la rivisitazione della tradizione in chiave moderna e innovativa.
Al contrario di quest'ultimo però, il rinascimento del caffè sta seguendo un percorso inverso: mentre l'età rinascimentale ebbe come epicentro l'Italia, in particolare Firenze, per poi espandersi in tutta Europa, la coffee renaissance (non a caso in inglese) ha iniziato il suo percorso negli Stati Uniti. Qui infatti iniziò lo sviluppo degli specialty coffee shop e una nuova cultura del caffè, che passando attraverso i Paesi Nord europei è giunta infine all'Italia, guarda caso sempre a Firenze in Toscana, dove hanno preso vita le prime caffetterie più innovative sul modello americano. Come se il mondo intero, attraverso il caffè, avesse voluto rendere omaggio al nostro Paese per il patrimonio artistico e culturale consegnato al mondo.
Proprio una forma di gratitudine ha spinto il fondatore Howard Schultz a desiderare fortemente questo punto vendita nel cuore della città meneghina, fonte di ispirazione per la sua idea di business fin dalle origini.
Mi chiederete: in tutto questo percorso quindi, da italiani, ci dovremmo sentire spettatori passivi?
Decisamente no. Il nostro contributo è stato importante e rilevante. All'Italia si deve l'invenzione della macchina espresso e la cultura connessa a questo metodo di preparazione, senza dimenticare che molti impianti di torrefazione sono di produzione italiana.
La diffusione dell'espresso su scala globale però la dobbiamo proprio a Starbucks che ne ha colto il potenziale e ha saputo esportare il proprio format in tutto il mondo.
La chiusura del cerchio arriva proprio grazie all'apertura del tanto atteso Starbucks Reserve di via Cordusio, il terzo nel mondo dopo Seattle e Shangai. Da operatori e amanti di questa bevanda e da italiani dovremmo essere orgogliosi e grati al colosso americano per questa scelta.
L'esperienza che si può fare all'interno di questi spazi è prima di tutto emozionale, perché l'impatto che si ha è paragonabile all'esperienza dei ragazzini nella fabbrica di cioccolato di Willy Wonka, con la differenza che qui si produce caffè.
La seconda è di tipo culturale e formativo, dal momento che lo spazio consiste in un open space di 3200 metri quadri dove l'intero processo, dalla tostatura all'estrazione, è a vista e illustrato dagli operatori in modo estremamente professionale.
Infine la terza e ultima, ovvero quella sensoriale.
Qui possiamo provare l'esperienza del caffè declinato in ogni sua forma: ci sono aree dedicate ai diversi metodi di preparazione (espresso e drip) e un'area cocktail al piano superiore. Certo, il caffè non seguirà i canoni delle caffetterie specialty (ma in centro a Milano chi e quanti possono affermare di farlo?) e la tostatura risulta forse un po' troppo spinta (scelta discutibile, ma pur sempre una scelta). La materia prima utilizzata è però di ottima qualità e sempre collegata a una certificazione di tipo etico (Rainforest, UTZ, organic). Sensibilità e attenzione che nel nostro Paese è poco sentita.
Tutto questo a un prezzo di partenza di 1,80 €, questo il costo di un espresso singolo. Troppo?
A più di due mesi dall’apertura il continuo flusso di persone nel nuovo locale di via Cordusio sembrerebbe dimostrare il contrario e in qualsiasi business, si sa, i numeri hanno sempre ragione.
Più che sul prezzo finale porrei piuttosto un altro quesito: quanti di questi introiti vanno a favorire e migliorare le condizioni di vita di chi il caffè lo produce, vero anello debole della catena produttiva?
In situazioni critiche come quelle attuali dove le quotazioni di arabica sono al di sotto di $1 / lb (quindi ampiamente al di sotto dei costi di produzione) credo sia un punto cruciale su cui soffermarsi.
Non dobbiamo dimenticare che il caffè è prima di tutto una pianta da coltivare e se la sua produzione diventa poco attraente per le nuove generazioni di coltivatori, il rischio che corriamo è di compromettere drasticamente la produzione e la sua complessità in termini di varietà. Più che sul prezzo della tazzina, dovremmo quindi seriamente iniziare a chiederci quanto di più saremmo disposti a pagare per un prodotto effettivamente più buono e giusto da un punto di vista etico.
Cosa possiamo quindi imparare da tutto questo?
Prima di tutto che il caffè è una bevanda di tendenza, ancor prima di essere una consuetudine alimentare, ma bisogna essere abili e scaltri nell'ampliare l'offerta sul menù e si deve cercare di incuriosire il consumatore, troppo abituato ad ordinare “il solito”. La formazione rigorosa e la cortesia del personale sono elementi che non si possono trascurare: di bar dove consumare il caffè in fretta ce ne sono persino troppi.
Perché non puntare dunque su una clientela che possa venire a cercarci per il nostro caffè?
Il prodotto servito non solo deve avere una storia da raccontare, ma anche dimostrare di avere la lungimiranza necessaria per supportare le comunità nei paesi di produzione e sostenere così l'intera filiera. Solo allora potremo aumentare il prezzo finale della nostra tazzina.
Milano ha visto anche la prima edizione del “The Milan Coffee Festival” dal 30 novembre al 2 dicembre, organizzato dall’azienda inglese Allegra Group allo Spazio Pelota in zona Brera. Una vera e propria festa dedicata agli specialty coffees con un ricco programma di incontri, dimostrazioni e sfide di alta qualità. Un grande risultato che colloca Milano tra le città di riferimento in Europa per la diffusione della cultura del caffè di qualità.
La terza onda ha raggiunto quindi anche in Italia il suo apice entrando in pieno rinascimento, se saremo in grado di cavalcarla ci sarà da divertirsi per tutti, altrimenti il rischio è di venire travolti dalla sua forza impetuosa.